La caveja in Romagna

Introduzione

La Caveja è un oggetto di origina rurale, che col tempo è divenuto oggetto decorativo e suppellettile, simbolo della cultura tradizionale di quest’area locale.

Fino alla prima metà del XX secolo la caveja era una parte del carro e dell’aratro trainati dai buoi.

In seguito, mentre si perdevano completamente le sue funzione pratiche come conseguenza della meccanizzazione dei lavori agricoli, la caveja assunse nuovi significati, trovandosi ad essere una sorta di emblema dei forti valori incarnati nell’idea di “Romagna”.

“Caveja” è un termine dialettale che letteralmente significa “caviglia”. Allo stesso modo come le caviglie sopportano il peso del corpo e rappresentano la connessione tra gambe e piedi, la Caveja è un arnese fondamentale nei lavori agricoli perché connette gli animali al carro o all’aratro, favorendone il movimento.

Negli altri dialetti regionali italiani, la parola “caveja” non ha questo significato metaforico.

Articolo di Valentina Ballardini

Nel contesto della vita contadina le caveje erano strumenti particolarmente importanti, parte del carro e dell’aratro, che ne contenevano più d’una, ciascuna con una diversa funziona. Soltanto una di esse però, la caveya parte del sistema frenante, aveva la parte superiore decorata e anelli pendenti. La sua funziona era impedire al carro o all’aratro di scivolare in avanti, contro i buoi, in caso di brusca frenata.

L’aratro comprendeva un secondo tipo di caveja, che connetteva il giogo, portato dai buoi, al timone. Quanto al carro, oltre alle caveje del giogo e del sistemasimbolo2 di frenata, esso ne conteneva anche un paio nel rimone e una che fungeva da perno nello sterzo.

Oggi la caveja resta soprattutto un simbolo. La parola “caveja” è spesso associata alle tradizioni romagnole, anche non solo è estremamente raro avere la possibilità di vedere una caveja originale, in passato usata come parte dell’aratro e del carro, ma è anche piuttosto inconsueto trovarne una copia miniaturizzata.

Nella gran parte dei libri che ho consultato per questo studio la parola “caveja” era associata a “Romagna” (Romagna. La caveja nel tempo, I gioielli di Romagna, Usi e costumi di Romagna).

Nel volume “Storie della caveja” la parola è addirittura usata come una mera metafora dello spirito romagnolo. L’ho sfogliato sperando di trovarvi leggende e storie popolari connesse all’uso della caveja, per accorgermi delusa che il libro non aveva nulla a che fare con l’oggetto citato nel titolo: si trattava soltanto di una raccolta di racconti ambientati in Romagna, che delineavano il carattere della gente del luogo.

Quanto all’uso commerciale della caveja, non sorprende che siano numerosi i ristoranti tipici che si sono dati questo nome. Mi ha però sconcertato verificare che anche fuori dalla Romagna vi sono ristoranti che si chiamano Caveja, i quali peraltro nella gran parte dei casi non servono cibo romagnolo. Si può supporre che in alcuni casi la parola “caveja” abbia finito per acquisire connotazioni di buona cucina, smarrendo sia il legame con l’oggetto agricolo che con la Romagna. Ho inoltre scoperto che esiste anche una catena di piadinerie che si chiama Caveja, con sedi in tutta Italia, a ribadire il legame di due tra i più celebri simboli della nostra regione.

Tra gli altri esempi dell’associazione caveja-Romagna è il Palio della Caveja, che ha luogo ogni anno a Lugo e nel corso del quale i 4 rioni della cittadina si sfidano in un tiro alla fune con al centro una caveja. Caveja è inoltre il nome di una compagnia teatrale dialettale, un ulteriore sintomo di legame tra il concetto di caveja e il folclore romagnolo.

Come parte dell’aratro e del carro, la caveja era un oggetto estremamente prezioso. Questi due strumenti, infatti, avevano una funzione essenziale in agricoltura, la principale attività dell’area. In particolare il carro a quattro ruote, il plaustro, era uno degli strumenti rurali più importanti di Romagna, sia per il suo uso pratico in numerose attività, sia per le sue caratteristiche decorazioni.

La caveja è costruita da una pagella, la parte superiore, uno stelo, da 2 a 6 anelli a sezione circolare o quadrata e talvolta fiocchi colorati.

La pagella è una sorta di piastra traforata, in alcuni casi dipinta, iscrivibile in un quadrato di circa 20 cm di lato, attraverso la quale erano fatti passare gli anelli. Questi avevano di solito estremità non saldate tra loro, in modo da ottenere un suono migliore. Sempre per questioni acustiche, i bordi delle aperture della pagella in cui erano introdotti potevano essere ricoperti di cuoio, così da evitare il contratto tra i metalli.

Lo stelo, anch’esso a sezione quadrata o circolare e talvolta circondato da anelli, era forgiato separatamente e in seguito saldato alla pagella, misurava circa 50 cm e poteva essere decorato in vari modi.

I fiocchi colorati (2 o 4) erano legati ad appositi fori lungo il bordo della pagella. I loro colori variavano a seconda dell’area, in modo che la gente potesse riconoscere la zona di origine del carro durante le fiere.

Non esiste una caveja uguale all’altra, e a distinguerle sono soprattutto i simboli incisi, cesellati o traforati nella pagella. Se alcuni sono ricorrenti, altri, come le iniziali del proprietario e lo stemma di famiglia, contraddistinguono i committenti.

I simboli usati hanno subito nei secoli poche variazioni. Tra quelli più frequenti vi sono la croce (in genere posta al centro della pagella) e il sole. Oltre a implicare che gli elementi naturali e i valori religiosi avevano entrambi un ruolo di primo piano nella cultura rurale, questo fatto evidenzia la continuità tra la caveja e la tradizionale iconografia cristiana in cui sole e croce, usati con il medesimo significato, sono spesso interscambiabili. La stessa croce celtica, talvolta presente nella pagella, costituisce un’estrema stilizzazione di un sole con raggi.

Tra le immagini più consuete nella pagella ci sono poi mezze lune, draghi, pavoni (simbolo cristiano di resurrezione), colombe (nell’iconografica cristiana la tranquillità), aquile e il gallo (divenuto segno della campagna romagnola).

Bocchini (1977) osserva che alcune di queste rappresentazioni sono tipiche della cultura mediterranea (anche pre-romana): certi simboli presenti nelle caveje del XU-XVI secolo, per esempio, sono gli stessi del pre-ellenico (e indecifrato) Disco di Festo, una dimostrazione dell’antichità del loro impiego. È perciò possibile che essi siano stati scelti soprattutto perché parte di un’iconografia nota.

Molti di questi simboli, tuttavia, sono chiaramente connessi con la vita di tutti i gironi e i miti del mondo rurale: oltre alla religione, l’amore (i due cuori), la natura e la fecondità, la pace (le colombe, il ramoscello d’olivo), la tranquillità. Su alcune caveje più recenti compaiono inoltre rappresentazioni più prosaiche, come contadini e attrezzi agricoli. Anche i due pavoni l’uno di fronte all’altro (una tipica immagini su sarcofagi paleocristiani dell’Emilia-Romagna ripresa come decorazione delle pagelle), talvolta sono sostituiti nelle caveje da due galli, con il trasferimento nel mondo rurale di una rappresentazione religiosa comune nell’area. L’iconografica della caveja riunisce perciò una mescolanza di elementi tipici della vita contadina e della cultura rurale con simboli derivati dal mondo naturale e dalle rappresentazioni religiose.

È inoltre interessante notare come la simbologia sia divenuta più complessa con il passare del tempo (le caveje più antiche sono spesso decorate con forme geometriche e croci molto semplici), probabilmente per il fatto che la caveja, dapprima considerata solamente per la sua funzione, è in seguito divenuta l’emblema di un elaborato sistema di valori, uno status symbol.

La pagella è inoltre decorata da forme molto più complesse nelle caveje commissionate da famiglie benestanti, da una parte perché i contadini potevano permettersi solo caveje molto semplici, dall’altra per il fatto che la sfera del simbolico era molto meno rilevante nelle loro vite. Per i contadini la caveja doveva essere più importante come attrezzo rurale e per i poteri “magici” che si riteneva avesse.

Oltre alle decorazioni, elemento fondamentale della caveja era il suono. All’inizio del XX secolo Francesco Balilla Pratelli, studioso di musica locale, arrivò ad affermare che la caveja “è il simbolo dell’anima canterina di Romagna” (citato in Balzani 2001, p.125). Quanto fosse importante tale tintinnio è reso manifesto dal fatto che la caveja è spesso detta caveja dagli aneli. In parti diverse della Romagna essa assume inoltre differenti denominazioni legate al suo uso musicale. In alcune zone è per esempio chiamata caveja cantarena, poiché il suo tintinnio non conosceva sosta, in altre caveja campanera, perché si narra che in un paese non meglio identificato fosse stata usata per un periodo in sostituzione della campana della chiesa non funzionante.

Quando il carro avanzava gli anelli producevano un tintinnio, e poiché ogni caveja era diversa dall’altra (la loro produzione era appositamente commissionata a un fabbro), ciascuna aveva il proprio tono, che la rendeva riconoscibile a distanza dai concittadini. Di notte inoltre il suono poteva essere utile per capire a quale velocità procedeva il carro.

Come per le decorazioni, quanto più musicale era il tintinnio prodotto dagli anelli tanto più importante doveva essere il proprietario della caveja. La presenza di 4 o 6 anelli era in genere simbolo di un certo benessere.

Il materiale degli anelli fu nel corso del tempo oggetto di sperimentazioni volte a migliorarne il suono: per un certo periodo i fabbri usavano ricoprirli d’argento, ma nella seconda metà del XVII secolo si comprese che era possibile ottenere un suono più musicale semplicemente utilizzando il metallo usato per ferrare i cavalli, e questa tecnica prese il sopravvento.

Aldo Spallicci dette il titolo “Caveja” alla sua terza raccolta di poesie in dialetto.
In alcuni versi di La caveja dagli anëll egli usa il suono della caveja come metafora delle voci della campagna:
“E int agli anëll totta la passion / D’una canta ch’la mör tra un viöl ‘d luntan, / L’à e’ fesc dla lödla, e’ strìdar de’ rundon / E tott al nòstar vos ch’a ‘l condla e’ gran. / Agli anlini a gli à un son che pê d’arzent, / Cma e’ ridar d’un babin ch’l’è sempr’in mossa / Ch’l’à ganass ch’a l fa i bus, bianch int i dent. / J anluin vosa da babb, vuslona grossa / Ch’la vreb essar cativa e la j è amiga; / Ech la musica bona dla fadiga”.

Le origini della caveja sono oscure: non sappiamo quando fu introdotto in Romagna, quale oggetto costituisca il suo archetipo e quando cominciò a essere decorata. Uno dei suoi più antichi progenitori potrebbe essere il perno utilizzato dai Babilonesi, un cui esempio è oggi conservato al Field Museum di Chicago insieme ai resti di un carro risalente a 5400 anni fa (Bocchini 1977).
Calvetti (1994) invece ipotizza che i diretti antenati della caveja siano le decorazioni di carri sciiti introdotti in Romagna quando i Celti si insediarono nella regione, proma dell’occupazione romana.

Se si considera la presenza di anelli come la caratteristica fondamentale della caveja quale la intendiamo oggi, gli esemplari più antichi giunti fino a noi furono forgiati nel XIV-XV secolo. Si tratta di caveje estremamente semplici, con soltanto uno o due anelli, incisioni sullo stelo molto essenziali e decorazioni della pagella assai sobrie (croci e forme geometriche). Le prime caveje riccamente decorate risalgono al 1750, quando proprietari benestanti cominciarono a richiedere la presenza di anelli di bronzo e l’incisione di immagini di grappoli d’uva, spighe di grano, tralci di vite.

Solo poche famiglie contadini possedevano una caveja decorata, che era in genere usata soltanto in occasione delle feste di paese e delle fiere. La gran parte di esse poteva permettersi solamente un caveja dallo stelo privo di decorazioni e una pagella a cerchio con uno o due anelli di piccole dimensioni.

Non dovrebbe sorprendere che un attrezzo con una funzione tanto importante come la caveja, che poteva essere estratto dal carro o dall’aratro per divenire autonomo, abbia acquisito funzioni associate con vari riti benaugurali. In un passato pervaso da innumerevoli superstizioni e paure, la caveja era considerata una sorta di oggetto magico, e in quanto tale utilizzata a scopo propiziatorio in molti rituali volti a prevedere il futuro e proteggere la casa e le varie attività.

Nel corso delle mie ricerche su tali pratiche, ho trovato numerose versioni dell’uso della caveja, con diverse funzioni, in un vasto complesso di procedure. Si può ipotizzare che alcuni rituali variassero da zona a zona, e che potessero all’occorrenza essere improvvisati, ma in tutti i casi la caveja svolgeva svolgeva il ruolo di oggetto di buon augurio oppure aveva funzioni di previsione, e gli anelli avevano sempre una parte importante nella divinazione e nella richiesta di protezione.

La caveja era usata per esempio per prevedere se il bambino che stava per nascere sarebbe stato un maschio o una femmina. In questo caso dopo aver fatto sedere su una sedia la gestante, la donna più anziana della casa, l’azdôra, faceva il segno della croce con una caveja e le girava intorno 3 volte; appoggiava poi la caveja a una base, accendeva una candela alle sue spalle e attendeva la risposta. Qualora si fossero fermati per primi gli anelli di sinistra si prevedeva che il bambino sarebbe stato un maschio, se si fermavano prima quelli di destra una femmina. Se tutti gli anelli si fossero arrestati contemporaneamente, un evento molto raro, ci si attendeva un aborto (Bocchini 1977).

La caveja era poi usata, tra le altre cose, dopo la semina, al fine di tenere lontano i potenziali pericoli per il raccolto, e ancora per attirare e catturare le api, calmare i temporali (a questo scopo si danzava e gridava al cielo un ritornello tendendola al cielo), liberare qualcuno cui era stata fatta una fattura e tenere lontano il mazapegul, il folletto metà gatto e metà scimmia che si pensava entrasse nelle case durante la notte per soffocare le donne o spaventare il bestiame.

Alcuni dei riti erano inoltre associati alle notte: la caveja era utilizzata per prevedere quale delle figlie femmine si sarebbe sposata per prima, e dopo il matrimonio veniva agitata nel contesto di rituali di purificazione della casa; quando una sposa si accingeva ad entrare per la prima volta nella nuova casa doveva poi baciarne gli anelli, che avrebbero favorito la fecondità.

La sera si usava poi portare nel cortile la caveja e, a seconda dell’intensità del tintinnio e della distanza a cui era udito, si poteva prevedere come sarebbe stato il tempo il giorno successivo.

Dopo la seconda guerra mondiale le tradizioni rurali cominciarono rapidamente a scomparire. Con la completa meccanizzazione delle pratiche agricole la “carriera” della caveja ebbe termine: la gente cominciò a sbarazzarsene, dal momento che il valore simbolico era in fondo strettamente legato al suo uso. Al di fuori del contesto della vita contadina la caveja non significava nulla.

Negli anni ’60 e ’70, quando l’interesse per gli studi etnografici cominciò a fare presa anche a livello di cultura locale, qualcuno cominciò a collezionare caveje. Da allora esse cominciarono a essere esposte nei musei etnografici che nel frattempo stavano sorgendo in Romagna, e per la prima volta diventarono oggetto di osservazione. Nel frattempo il suo ruolo simbolico seguiva un percorso distinto. Il movimento di valorizzazione degli oggetti rurali che aveva avuto luogo all’inizio del secolo era ormai stato assimilato, e la caveja accettata come simbolo della Romagna. Essa da allegoria del regionalismo divenne però anche merce, e finì per entrare nel mondo industriale e commerciale, utilizzata come icona e logo. Balzani (2004, p.194) osserva che “caveja e Passatore passarono sulle isnegni di bagni e ristoranti […] La stessa piadina, prodotta lungo le strade in chioschi sempre più standardizzati, [è] diventa[ta] un prodotto industriale, che può aiutare a esportare il nome, ma non lo spirito, di Romagna”.

La biografia della caveja non giunge al termine con la modernizzazione della vita contadina.

Mentre le caveje originali venivano raccolte ed esposte in musei dedicati alla vita rurale, cominciarono infatti a essere prodotto e venture caveje in miniatura, con una funzione meramente decorativa. Il processo odi astrazione di questo oggetto dalla tradizione contadina, e la sua ricontestualizzazione, passarono dunque attraverso la miniaturizzazione e l’aggiunta di un supporto in legno alla sua base.

Nel suo studio sulla creazione di un’identità in Romagna, Balzani evidenzia che la “miniaturizzazione [di oggetti tradizionali è] essenziale per favorirne la diluizione nel quotidiano extra-rurale dei cittadini. Lo slittamento dei supporti, dal legno e dal ferro alla carta, alla ceramica, alla tela, segnala la forte intermediazione del milieu artistico e intellettuale urbano, che, in questo modo, si appresta a compiere un’eccezionale opera di traslazione dei significati, dall’originaria civiltà contadina alla civiltà regionali, dal regionalismo inconsapevole e semplicemente tradizionale dell’ambiente agrario al regionalismo culturale delle riviste, delle manifestazioni dialettali, delle esposizioni”.

All’inizio del XX secolo la caveja cominciò a essere considerata un simbolo della Romagna. In quel periodo un gruppo di intellettuali confò alcuni periodici dedicati alle tradizioni della regione e cominciò a organizzare attività e congressi finalizzati ad imporre alcuni simboli e a creare un senso di identità: contro la società di massa e i pericoli associati all’unificazione d’Italia (1861), esse tentarono di salvare dall’oblio la memoria culturale, in particolare mettendola per iscritto. Essi studiarono dunque le tradizioni, annotarono canti popolari, filastrocche, frammenti, dialetti, mirando a formare specialisti in gradi di ricostruire e divulgare la storia della Romagna.

Le testate delle loro pubblicazioni sono di per sè significative: Romagna pubblicata dal 1904 al 1916; il Plaustro (il tipico carro romagnolo), dal 1911 al 1920; La piê, dal 1920. Secondo uno dei creatori di questo movimento, il poeta Aldo Spallicci, i periodici dovevano non soltanto promuovere la conoscenza e i simboli, ma stimolare una pratica regionalista, creare abitudini. Studiando le tradizioni, divulgandole e dando vita a rappresentazioni accettate attraverso la ripetizione di storie, leggende e immagini, essi tentarono quindi di definire i confini della Romagna e incoraggiare la creazione di un legame indissolubile tra la gente e il territorio.

Tra i simboli da loro rivelati vi era la caveja, che eressero a protagonista di poesie e rivestirono di un’aura positiva. La caveja era di fatto un simbolo perfetto: oltre ad essere un attrezzo contadino, essa conteneva a sua volta rappresentazioni e segni che ordivano un legame con il passato e il territorio. Era perciò nel contempo un oggetto bellissimo, significativo e misterioso, che incarnava la propria storia e quella del suo proprietario. Non essendo più utilizzata, stava poi divenendo una sorta di entità vuota a cui, grazie al ricordo ancora vivo della funzione che aveva svolto, potevano essere attribuiti valori che costituissero una connessione con il passato e permettessero ai romagnoli di identificarsi con i loro progenitori.

Il fatto che la caveja fosse un pezzo unico, non forgiata per essere messa sul mercato, ma appositamente realizzata su commissione secondo il volere del proprietario e la fantasia del fabbro, è essenziale per apprezzare il valore simbolico che essa avrebbe acquisito in seguito. come sottolinea Kopytoff, la non vendibilità attribuisce una particolare aura di distinzione alle cose, che in quanto senza uguali sono considerate lontane dal mondo del triviale e dell’ordinario. Essere vendibile significa essere parte di un universo di valuri commensurabili, cioè essere comune. La non commerciabilità equivale invece a essere esclusivo, imcomparabile, unico.

La caveja oggi familiare ai romagnoli è dunque in gran parte un’invenzione dell’inizio del secolo, e la sua biografia evidenzia da una parte questa improvvisa ridefinizione del suo significato, dall’altra in un certo qual senso riflettere il mutamento (e l’invenzione) del concetto di Romagna. Questa regione si identifica oggi con la Romagna solatìa di Pascoli, la terra della piadina, della pineta, del mare e del buon cibo, anche se ora la piadina non è sempre buona, la pineta rimasta è esigua e rada, il mare inquinato, le spiagge iper sfruttate e trovare cibo di buona qualità non è più così facile.

I miei nonni vivevano in campagna, ma i ricordi che mia nonna ama raccontarmi sono tristi e deprimenti. Ha un vasto repertorio di storie di una società maschilista in cui le donne, che lavoravano duramente, erano poco considerate. L’elemento magico che ha un ruolo così significativo nei suoi racconti non mi sembra altro che un sintomo della mancanza di controllo dei poveri contadini sulle loro vite. Non so se la vita di mia nonna può essere considerata rappresentativa dello stile di vita in Romagna nella prima metà del secolo, ma la sua immagine della regione è tutto fuorché dolce e solatia.

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